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Il XVI congresso della CGIL

di Giulio Angeli


La CGIL è attualmente impegnata ad ultimare le assemblee di base in vista del suo prossimo XVI congresso. E’ ancora presto per parlare di percentuali, dato che in tali assemblee si stanno confrontando i due documenti “globalmente alternativi”. il primo, di maggioranza, è denominato “I diritti ed il lavoro oltre la crisi“ e vede come primo firmatario Guglielmo Epifani, segretario generale nazionale della CGIL. Seguono le firme di 9 segretari nazionali, di una parte dei componenti la Commissione Politica e dal coordinatore nazionale dell’Area “Lavoro e società”, Nicola Nicolosi.  Il secondo documento, di minoranza, è denominato “La CGIL che vogliamo” e vede come primo firmatario Domenico Moccia, segretario generale nazionale della FISAC CGIL, il sindacato dei bancari e dei lavoratori delle assicurazioni.  Il documento è corredato dalle firme di una segretaria nazionale della CGIL e da compagne e compagni del Comitato Direttivo Nazionale, da quelle di Gianni Rinaldini e di Carlo Podda, rispettivamente segretario generale nazionale della FIOM – CGIL e segretario generale nazionale della Funzione Pubblica CGIL.
Si è giunti a questa scadenza congressuale in una difficile situazione di crisi internazionale che, in tutta Europa, ha visto le organizzazioni sindacali agire con grandissima difficoltà nei confronti della crisi e dell’attacco padronale alle condizioni di vita delle classi subalterne.
Anche in Italia la crisi si è manifestata con tutti i suoi devastanti effetti aggravati dall’azione del governo Berlusconi impegnato a demolire storiche conquiste sindacali. In un simile contesto la CGIL ha saputo intraprendere un suo preciso percorso unitario e di opposizione che, dall’ultimo congresso (il XV, celebrato quattro anni fa), si è evoluto da una totale subalternità al governo Prodi ad una rivisitazione critica, culminata in una crescente mobilitazione che ha prodotto una messa in discussione delle compatibilità e delle politiche concertative, realizzando una progressiva rottura con le derive neocorporative di CISL e UIL, rottura maturata non su dettagli ma sul ruolo strategico del sindacato in questa precisa fase storica. Una rottura caratterizzata da profonde contraddizioni e lacerazioni interne, non scevre da implicazioni decisamente moderate (accordo del 23 luglio del 2007, il mai del tutto contraddetto ”Protocollo su previdenza, lavoro e competitivita' per l'equita' e la crescita sostenibili”, firmato e sostenuto anche dalla CGIL) e dalla firma unitaria (con CISL e UIL) di numerosi contratti nazionali assolutamente insufficienti, specialmente per quanto riguarda la parte salariale.
Questo contraddittorio percorso ha progressivamente coinvolto anche la componente di opposizione interna alla CGIL, l’area programmatica “Lavoro e società” già soggetta a una lenta ma costante assimilazione ai percorsi moderati del gruppo dirigente della Confederazione, sia pure ostentando significative discontinuità quali, ad esempio, la decisa opposizione all’accordo del 23 luglio 2007 culminata con l’indicazione di votare no al successivo referendum, e con la manifestazione del 29 di settembre 2007 a Firenze contro l’accordo medesimo. Contemporaneamente, però, “Lavoro e società” finiva per avallare contratti ispirati alla moderazione salariale e alle compatibilità, (ferrovieri, scuola, università, sanità, alimentaristi, telefonici, cartai) che recepivano la sostanza dell’accordo del 23 di luglio, e questa tendenza era destinata a prevalere sulle altre discontinuità che venivano lentamente rimosse.
L’intera politica contrattuale avvallata dai gruppi dirigenti della CGIL finiva così per reintrodurre (in assenza del meccanismo della “scala mobile”), l’istituto della triennalità della parte economica del contratto indebolendo ulteriormente il potere di acquisto dei salari, non combatteva efficacemente il precariato poiché non venivano definite significative barriere alla legge n. 30 e non realizzava una decisa opposizione alla controriforma del sistema pensionistico.
D’altronde le significative mobilitazioni intraprese dalla CGIL in questi ultimi anni, se da una parte hanno costituito l’unico argine significativo all’attacco capitalistico e governativo, non hanno saputo e voluto, dall’altra, costruire ampi processi unitari in base alla difesa degli interessi di classe del proletariato. Come dire: il documento unitario del XV congresso è stato sì enunciato, ma i suoi contenuti più qualificati sono stati irrimediabilmente contraddetti e rimossi, proprio perché non sono stati fatti propri dai contratti nazionali di categoria e non sono stati posti quale premessa ad una lotta unitaria delle classi subalterne nel nostro paese.
In questo panorama si è distinta la FIOM che ha saputo riproporre i contenuti più qualificati scaturiti dal XV congresso esprimendo, in una situazione difficilissima, una capacità di mobilitazione superiore, in qualità e quantità, a quella espressa da altre categorie: ma, nonostante alcune significative aperture come, ad esempio, quelle maturate nei confronti di alcuni movimenti di massa con cui la FIOM ha meritoriamente interloquito,  questa capacità di lotta è rimasta artatamente confinata all’interno dei metalmeccanici con pochissime e malriuscite eccezioni: come lo sciopero congiunto FIOM – Funzione Pubblica CGIL indetto il 13 febbraio 2009 che si è configurato come una forzatura dei gruppi dirigenti interni alle categorie, piuttosto che un reale momento di unità delle lotte tra lavoratori pubblici e privati. A ben guardare né il gruppo dirigente FIOM, né quello della Funzione Pubblica a cui possiamo aggiungere anche quello della FISAC, si sono curati di imprimere dinamiche unitarie alle mobilitazioni, evitando di costruire comuni scadenze di lotta che avrebbero potuto divenire il laboratorio di una rinnovata unità di classe fondata su obiettivi quali il salario, la difesa del lavoro e l’opposizione ai processi di ristrutturazione nel privato e nel pubblico, la lotta al precariato.
Da questo punto di vista il comportamento del gruppo dirigente di “Lavoro e società” si è qualificato come esitante ed incerto, dato che ha finito per abbandonare, fin dall’inizio, l’interlocuzione con i lavoratori metalmeccanici per privilegiare la polemica separata con il gruppo dirigente FIOM accusato di ostacolare l’agibilità di “Lavoro e societa” nella categoria. Se questa accusa contiene indubbiamente del vero, c’è da dire che essa ha rapidamente lasciato spazio ad un’altra più grave e sospettosamente generica: quella di anticonfederalità, che è divenuta poco alla volta il cavallo di battaglia della nuova maggioranza che andava costituendosi. Così è che “Lavoro e società” è andata realizzando una progressiva assimilazione, addirittura ostentata, alle posizioni del gruppo dirigente nazionale della CGIL: oggi, in modo più o meno edulcorato, la maggioranza (Epifani) accusa la minoranza (Moccia) di non essere confederale, se non addirittura anticonfederale. Ma la questione è volutamente mal posta:  in realtà essa ruota attorno alla storica esperienza della FIOM che si confonde con quella della riunificazione dei settori produttivi nella proposta del contratto unico, per meglio schierare le forze in opposizione al padronato. E’ questa  una specifica tendenza propria della FIOM quale categoria forte che come tale intende contare, soprattutto nelle fabbriche e nei territori, per dimostrare che senza la FIOM i contratti non si gestiscono, intento questo non esplicitato da altre categorie. Che questa concezione comporti dei rischi è certamente vero, ma essa appartiene, comunque, alla dialettica dei rapporti di forza da cui non è scevra la lotta di classe nonché all’intera storia della CGIL, laddove le categorie più forti e attive sono anche quelle che più condizionano le scelte in materia di politica sindacale.
C’è effettivamente da condividere l’affermazione del compagno Nicola Nicolosi, coordinatore nazionale di “Lavoro e società”, secondo la quale “Può apparire complicato spiegare che la Cgil va al congresso divisa su due documenti contrapposti. Complicato perché lo scontro è tra le “oligarchie” e lo scontro non è presente tra i lavoratori che fanno riferimento alla Cgil.” (Nicola Nicolosi – Una Bolognina per la CGIL?” Lavoro e Società n. 73/2000 del 16/02/2000) ma questa valutazione dovrebbe essere rivolta all’intero gruppo dirigente della CGIL, compreso quello di “Lavoro e società” che condivide il documento Epifani e non solo al gruppo dirigente FIOM e a quanti condividono il documento Moccia, Rinaldini, Podda.
Il problema consiste nel fatto che il processo di assimilazione di “Lavoro e società” alle componenti moderate della vecchia  maggioranza trae le premesse proprio da affermazioni generali, che non sono mai state completamente calate nella realtà delle categorie, quando non sono state del tutto contraddette (vedi politiche contrattuali più recenti, anche se si realizza una apprezzabile criticità nei confronti del contratto dei chimici), rimanendo solo buone intenzioni. Ciò è stata la conseguenza della  rinuncia intrapresa ad iniziare un percorso coerente con i dettati del XV congresso, un percorso che non poteva che essere inevitabilmente, continuativamente  e rigidamente critico nei confronti degli sbandamenti e delle derive confederali.
“Lavoro e società” avrebbe dovuto partire dall’esperienza FIOM per proporre vertenze unitarie non episodiche, artificiali o propagandistiche, in difesa delle condizioni di vita dei lavoratori pubblici e privati, dei precari, dei disoccupati e dei pensionati, donne e uomini, vertenze capaci di rilanciare la solidarietà di classe tra lavoratori in generale e tra lavoratori privati e pubblici in particolare, tra occupati e disoccupati, tra vecchi e giovani, tra i settori di classe più forti e quelli più deboli come i migranti e gli extracomunitari, questi ultimi del tutto privi di tutela, se non addirittura abbandonati a loro stessi.
Lavoro e società” avrebbe dovuto incalzare il gruppo dirigente della CGIL con una critica costante al suo indiscutibile legame con il parlamentarismo: ma anche il compagno Giampaolo Patta si dimise dal ruolo di coordinatore nazionale di “Lavoro e società” per divenire membro del governo Prodi.
“Lavoro e società” avrebbe dovuto richiedere la definizione di precisi “mandati a trattare” da parte dei lavoratori nei confronti dei vertici, per riempire di contenuti concetti ormai generici quali “democrazia sindacale”.
Questa paziente ma necessaria ginnastica non è mai stata coerentemente e continuativamente intrapresa se non occasionalmente, e il percorso di opposizione si è inceppato confondendosi e paralizzandosi nel piatto orizzonte nel quale si riducono le alchimie politiche dei gruppi dirigenti sindacali legati ai partiti politici parlamentari ed ex parlamentari.
Vecchie maggioranze e vecchie minoranze trovano un accordo politico nel documento “I diritti ed il lavoro oltre la crisi”, ponendosi come nuova maggioranza congressuale mentre da quest’ultima si staccano cospicue componenti (FIOM, FISAC, FP), che con il documento “La CGIL che vogliamo”, si pongono in alternativa candidandosi al ruolo di nuova minoranza.
Contemporaneamente a queste alchimie dei gruppi dirigenti i “fatti di Rosarno” sorprendono tutti.
Non staremo a ragionare attorno a categorie onnivore quali, ad esempio, quella razzista. Al riguardo non neghiamo che nel movimento operaio, specialmente in quello maggiormente tutelato senza voler con questo scomodare la categoria dell’aristocrazia operaia per altro attualissima, si celi la deviazione xenofoba. Non lo neghiamo perché la storia, purtroppo, dimostra il contrario, esempi a bizzeffe: ma lo dimostra proprio nelle situazioni di crisi, laddove i limiti, gli errori, i ritardi, le subalternità e le complicità delle organizzazioni di massa e di quelle politiche della sinistra storica e non unitamente, deve essere ricordato, all’impotenza dei rivoluzionari, presentano inesorabilmente il conto, sbattendo sul piano della storia e dei comportamenti collettivi, non la propensione internazionalista che vede nel lavoratore straniero il fratello e  l’alleato di classe per una lotta comune, ma il concorrente da additare come nemico che minaccia le nostre conquiste, da isolare e da linciare in pubblico.
Il fatto che la CGIL sia largamente assente, ovvero non sia stata visibilmente in prima fila a difendere i lavoratori di Rosarno, così come non si è mai concretamente mobilitata per recuperare (perché non farlo con natanti propri?) e difendere le donne e gli uomini che, con le loro famiglie e nella disperazione più totale, si riversano via mare sulle nostre spiagge per sfuggire a un futuro di morte, è l’indice di un drammatico ritardo culturale e politico (teorico, strategico, tattico e organizzativo per dirla tutta), affiancato all’incapacità di comprendere e individuare la forza lavoro del futuro e, insieme, l’interra prospettiva dell’organizzazione sindacale. I fatti di Rosarno hanno sorpreso in un drammatico ritardo tutta la CGIL; un ritardo che dimostra una allarmante incapacità nel raccogliere e interpretare le contraddizioni, i bisogni, gli stimoli e la condizione di classe provenienti dal proletariato immigrato, per veicolarli tra i lavoratori italiani al fine di costituire un unico fronte di lotta che abolisca e superi le barriere e i pregiudizi raziali, in una visione internazionalista, di cui c’è estremo bisogno: “…nostra patria è il mondo intero…”
In definitiva, il percorso di opposizione indiscutibilmente assunto dalla CGIL non è stato caratterizzato da un crescendo fatto di alleanze sociali tessute su piattaforme unitarie sulle quali mobilitare le varie componenti di classe contro governo e padronato, ma bensì da un lento rifluire in una pratica che ha isolato dai contesti più generali le singole categorie, anche quelle più combattive come la FIOM, per approdare ad una situazione di immobilismo.
Queste considerazioni riguardano simmetricamente tutti i gruppi dirigenti della CGIL, vecchie e nuove maggioranze e minoranze, che hanno anteposto la logica di apparato alla concretezza della realtà dalla quale sono sempre più assenti.
In un simile contesto il confronto congressuale doveva iniziare non dalle divergenze ma dal percorso unitario fin qua realizzato, e dai tentativi di respingere le spinte più moderate dei gruppi dirigenti legati ai partiti politici parlamentari e ex parlamentari loro malgrado. 
I lavoratori capiscono benissimo, ma non sono interessati alle dialettiche interne ai vertici sindacali e, d’altronde, il resto è pura formalità: alla legittima obiezione secondo la quale gli estensori del documento di Moccia, Rinaldini, Podda non avrebbero contribuito di una virgola ai lavori della commissione politica dimostrando nei fatti di voler presentare il loro documento “per forza”, si può rispondere con obiettività che la maggioranza del gruppo dirigente della Confederazione non consultò le categorie e i lavoratori prima di firmare il protocollo tra governo, sindacati e confindustria,  su previdenza e mercato del lavoro, noto come l’accordo del 23 di luglio,  preferendo la via del referendum a posteriori, quando si trattava, invece, di rivendicare la definizione di un preciso mandato a trattare che consentisse ai lavoratori di controllare l’operato dei vertici.
Quante altre obiezioni e contro obiezioni potrebbero rinfacciarsi gruppi dirigenti deboli? Perché proprio di debolezza si tratta: il gruppo dirigente della CGIL è diviso perché è debole e questa debolezza è a sua volta il prodotto di una strategia globalmente subalterna al capitalismo, che si perde nella notte dei tempi e che trova il suo sbocco nella fallimentare strategia intrapresa nel 1978 con la conferenza dell’EUR, e coerentemente perseguita, e mai contraddetta sconfitta dopo sconfitta, fino all’accordo del 23 di luglio 2007. La sola opposizione generale, quella sulle grandi questioni (gli assetti contrattuali, le politiche fiscali, lo stato sociale ecc) indiscutibilmente meritoria, non può bastare a definire un gruppo dirigente unito e forte.
La realtà è che questa opposizione è stata troppo spesso episodica e priva di coerenza, contraddetta da accordi del tutto insufficienti e da moderatismi che hanno rinviato l’assunzione di responsabilità: così è che si è indetto lo sciopero generale contro la politica fiscale del governo per il 12 marzo 2010 in una dimensione di lotta usurata dalla crisi, laddove la consapevolezza di classe è ai minimi storici. Uno sciopero generale tardivo che rischia l’inefficacia, contemporaneamente rischiando la subalternità  al moderatismo corporativo e collaborazionista di CISL e UIL. “Lavoro e società” si è distinta per inazione e conformismo, ed è proprio questa sua debolezza che la spinge a convergere verso gli enunciati del gruppo dirigente di maggioranza. La realtà è molto allarmante non perché la CGIL si presenti divisa in una situazione economica e politica difficilissima, ma perché questa divisione avviene tra gruppi dirigenti deboli, schierati su documenti insufficienti.
Il documento di Epifani elude quasi del tutto l’autocritica, ad eccezione di una blando riferimento alla subalternità rispetto al governo Prodi e, effettivamente, non crea quella discontinuità fortemente richiamata dai sostenitori del documento Moccia, Rinaldini, Podda. Anche quest’ultimo documento è caratterizzato dall’assenza di autocritica sulle scelte strategiche intraprese dalla CGIL in questi ultimi trenta anni, e quando la critica c’è è ovvia, insufficiente e tardiva, dato che a queste scelte nemmeno la FIOM fu del tutto estranea.  I danni operati dalla subalternità ai processi capitalistici, i guasti di analisi insufficienti, l’unanimismo rivendicato ai danni dell’opposizione interna (Essere Sindacato, Alternativa Sindacale, Lavoro e società) spesso sbeffeggiata per il suo ruolo critico e di classe e fortemente osteggiata anche dal gruppo dirigente della FIOM e della Funzione Pubblica, non possono certo essere annullati da una, sia pure salutare opportuna ed auspicabile  inversione di tendenza.
Il fatto è che l’assenza di autocritica lascia spazio alla superficialità che è il limite del documento Epifani, e al massimalismo che è il simmetrico limite del documento alternativo.  Entrambi i documenti sono il prodotto di una situazione di debolezza che replica gruppi dirigenti inevitabilmente deboli, ondivaghi e conflittuali, impegnati più a privilegiare gli assetti politici organizzativi interni che non la natura dello scontro sociale in atto. All’obiezione secondo la quale il documento di minoranza (Moccia-Rinaldini-Podda) sarebbe eterogeneo e dettato da convergenze maturate all’interno di uno scontro tra poteri, valutazione questa assolutamente obiettiva, si può facilmente controbattere con altrettanta obiettività che il documento di maggioranza (Epifani-Nicolosi) è un accordo di vertice, dettato dalla necessità di replicarsi come gruppi dirigenti valorizzando, senza un’ombra di autocritica, un percorso unitario su questioni assolutamente generali se non generiche, che non forniscono nessuna risposta in più a quelle già fornite e del tutto insufficienti su tematiche fondamentali come salario, occupazione, precarietà, previdenza, assistenza, questione fiscale e democrazia sindacale.
A ben guardare i due documenti avrebbero potuto benissimo essere integrati: ne sarebbe conseguito un documento più solido e qualificato, costruito attorno alla mobilitazione generale per come è stata praticata in questi ultimi anni e qualificato dalla fondamentale vicenda FIOM, che è l’unica categoria ad aver applicato in modo estensivo e progressivo il documento  dell’ultimo XV congresso. 
In ultima analisi questo doveva essere l’obiettivo di “Lavoro e società” e della sinistra di classe nella CGIL. Questa avrebbe dovuto essere la proposta da portare ai lavoratori appena la FIOM iniziò il suo quasi isolato percorso di opposizione sociale. Ma le sintesi che aprono a scenari superiori sono il frutto di una dialettica forte e non il prodotto di una situazione di crisi che esprime debolezze che, magari, galleggiano pure su mobilitazioni reali. Lavoro e società” non avrebbe dovuto lasciare che il precipitare della situazione l’obbligasse a schierarsi da una parte o dall’altra, per finire di fare il vaso di vetro tra quelli di ferro, perché il rischio è anche questo: gli spazi che “Lavoro e società” si conquisterà all’interno della CGIL dopo questo XVI congresso saranno il prodotto di un accordo politico al vertice, che in ogni caso striderà con il risultato congressuale ottenuto dalla nuova minoranza che potrà legittimamente affermare di aver ricevuto il mandato dei lavoratori.
Anche “Lavoro e società” ha quindi anteposto gli accordi al vertice alla necessaria interlocuzione con le forze vitali (le categorie). Così è che, nel tempo, questa nuova aggregazione, cresciuta attorno alla FIOM e veramente contraddittoria, si è imposta all’interno ed all’esterno della CGIL oscurando la platea e la visibilità di “Lavoro e società”. Migliaia di militanti di quella che fu l’opposizione di classe interna alla CGIL hanno così finito per schierarsi in base ai criteri interni, comprensibili solo a coloro che conoscono le logiche interne della CGIL: questioni strategiche, politiche e tattiche nei casi più nobili e sofferti, rapporti personali e criteri di opportunità in tutti gli altri che finiscono, spesso, per essere la maggioranza.
In ogni caso, il progressivo consolidarsi di un nuovo ambito di opposizione, qual è quello facente riferimento a Moccia-Rinaldini-Podda, che associa l’esperienza FIOM a quella certamente più contraddittoria di altre categorie (FP e FISAC) e ai loro gruppi dirigenti decisamente moderati, unitamente al convergere di altre esperienze collettive e individuali, sono tutti fenomeni che hanno sorpreso “Lavoro e società”, dato che non è stata in grado di prevederli e di analizzarli nella loro reale dimensione di classe, e che si aprono a inediti e allarmanti scenari.
In un simile contesto la scelta dell’astensione attiva, cioè motivata, potrebbe anche apparire come l’unica praticabile: ma questa scelta non può che riguardare compagni con responsabilità limitate all’interno dell’organizzazione dato che coincide, in larga misura, con il “tirare i remi in barca” tornando a fare il semplice iscritto. D’altronde vi sono validi motivi per fiancheggiare l’uno o l’altro schieramento: i due documenti sono assai simili e i gruppi dirigenti che li hanno scritti sono tutti deboli, espressione cioè di insiemi contraddittori che non esprimono risultanti forti né proposte autenticamente unitarie. Allora, e se un compagno per rimanere in categoria, per difendere il suo ruolo politico magari costruito faticosamente negli anni (lascio alla semplificazione estremistica  o reazionaria il credere che tutto volga alla difesa delle poltrone) o per non finire isolato, oppure spinto dagli eventi locali accettasse di schierarsi con l’uno o con l’altro documento in base a meri criteri di opportunità ebbene, io, non mi sentirei di condannarlo.
Per quanto mi riguarda, perché alla fine una posizione deve essere presa e per il poco valore che può assumere il mio pronunciamento, non potendomi riconoscere né nella mozione di “maggioranza” né in quella di “minoranza” e considerando che sono solo un militante con incarichi all’interno degli organismi dirigenti ed esecutivi della mia categoria, la FLC CGIL, (Scuola, Università, Ricerca), che non usufruisco di alcun distacco poiché, se così fosse, crescerebbero di gran lunga le responsabilità e non sarebbe poi tanto facile “mollare”, assumerò una posizione di chiara e motivata astensione, rifiutandomi di schierarmi con la burocrazia e tornando a fare il semplice iscritto, senza venir meno, con questa mia scelta, all’impegno sindacale. Ma, oltre le mie modeste scelte individuali, continuare a ragionare sul ruolo del futuro dell’opposizione di classe interna alla CGIL e sul suo stesso destino sarà, dopo questo XVI congresso  un impresa assai più complicata.                  

Gennaio 2010